Geni SMAD nella schizofrenia
GIOVANNA REZZONI
NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 01 aprile
2023.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Ritorniamo a occuparci di schizofrenia e,
dopo l’aggiornamento del 18 marzo[1] e la
recensione di due settimane prima di uno studio sul difetto di recettori H2
nella patogenesi del disturbo[2], che entrambe
si raccomanda di leggere, aggiungiamo un’altra piccola tessera al mosaico
emergente di un nuovo quadro neuropatologico. Ribadendo la tesi più volte
enunciata che alla categoria nosografica unica potrebbero corrispondere più
meccanismi o processi molecolari eziopatogenetici, cominciamo subito con un
aggiornamento relativo alla percentuale di determinazione genetica: nuove stime
fanno salire, come era stato ragionevolmente supposto, all’80% il ruolo dei
geni nello sviluppo del quadro clinico[3].
Le SMAD (signal transduction through the mothers against decapentaplegic) sono otto differenti proteine che
formano una famiglia di fattori di trasduzione del segnale, che media la
segnalazione della superfamiglia TGFB di proteine regolatorie della cellula, e
sono implicate nella regolazione dei processi infiammatori, del ciclo cellulare
e del patterning tessutale. La SMAD4
nel cervello schizofrenico è ridotta nella corteccia prefrontale
dorsolaterale (DLPFC) e nella corteccia cingolata anteriore (ACC)[4].
Principalmente questo dato, ma anche numerose altre
evidenze, hanno indotto Ammie Wolf, Assif Yitzhaky e Libi Hertzberg a studiare la genetica di queste proteine nel
disturbo schizofrenico. Rilevata una certa incoerenza e difformità di dati sull’espressione
genica nel cervello psicotico delle SMAD in alcuni lavori, i tre ricercatori
israeliani hanno condotto una meta-analisi sistematica dell’espressione dei
geni SMAD in 423 campioni di cervello, traendone una significativa conclusione.
(Wolf
A. et al., SMAD genes are up-regulated in brain and blood samples of
individuals with schizophrenia. Journal of Neuroscience Research – Epub ahead of print doi: 10.1002/jnr.25188, Mar 28, 2023).
La provenienza degli autori è la seguente: The Sackler School of Medicine, Tel-Aviv
University, Tel-Aviv (Israele); Department of Physics
of Complex Systems, Weizmann Institute of Science, Rehovot (Israele);
Shalvata Mental Health Center, Hod Hasharon (Israele).
Introducendo
la presentazione dello studio sul deficit di recettori dell’istamina H2 nella
patogenesi della schizofrenia, Giovanni Rossi ha specificato: “La patogenesi
della schizofrenia rimane ancora indefinita, nonostante si siano acquisite nel
campo della fisiopatologia nozioni estese dall’ambito neurochimico a quello
strutturale, dal livello sinaptico a quello delle grandi reti neuroniche dell’encefalo.
La stessa genetica che, dal tempo delle analisi di associazione del Psychiatric
GWAS Consortium Coordinating Committee (2009) si
è arricchita di una quantità enorme di dati sui geni di rischio, non ha fornito
le indicazioni dalle quali si sperava di ricavare la ratio di processi
paradigmatici per l’eziopatogenesi di alterazioni probabilmente eterogenee in
termini molecolari, cellulari e di sistemi neuronici, ma accomunate
clinicamente da alcuni capisaldi sintomatologici.”[5]
Anche se
quanto emerso dallo studio qui recensito è prudentemente riportato alla
fisiopatologia, può stimolare anche qualche ragionamento patogenetico. Per
inquadrare le nuove nozioni nell’evoluzione della concezione della schizofrenia
si propone una recente introduzione all’argomento di Giovanni Rossi:
“La schizofrenia, che interessa l’1%
della popolazione mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità
mentale, è la più grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita
di un paziente psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età
adulta fino alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione
generale. La concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente
si deve al grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal
caso di uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più
semplici dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti
con un simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per
questo elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione
diagnostica di demenza praecox.
Era dunque ben presente l’aspetto
relativo al limite cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza
delle teorie psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a
conflitti inconsci lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione
del fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari
processi di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per
induzione, deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.
Lo stesso Eugen Bleuler[6], che introdusse il termine “schizofrenia” per indicare la frequente scissione
(schizo-) nello psichismo e, in particolare, la separazione del tono
affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa nella comunicazione, aveva ben presente
il difetto intellettivo che peggiorava col progredire della malattia.
A quell’epoca, l’opinione degli
psichiatri era concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la
conseguenza di una malattia del cervello con una forte base genetica, e caratterizzata
da un processo patologico che si supponeva diffuso nel parenchima cerebrale,
con particolare compromissione della corteccia, ritenuta la base dei processi
intellettivi. L’unica possibilità esistente a quel tempo di studio del cervello
consisteva nell’osservazione necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni
di tessuto cerebrale, per lo studio istologico.
Gli stessi padri fondatori della
neuropatologia, Nissl, Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem
sul cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che
si rivelarono incostanti e non caratterizzanti[7]. In particolare, nel 1897 Alzheimer segnalò una scomparsa locale di
cellule gangliari negli strati esterni della corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte
(1906) descrissero zone di demielinizzazione focale, il cui reale valore di
reperto istopatologico fu contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da
Wolf e Cowen. Anche Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di
neurologi illustri, compì studi neuropatologici sulla struttura del cervello
schizofrenico, descrivendo formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti
di preparazione del tessuto. Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e
una degenerazione grassa degli strati corticali, che non trovarono riscontro in
altri studi. Bruetsch, nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai
reumatici nell’encefalo psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto,
postulò un ruolo eziologico per la febbre reumatica.
Nel 1952 Winkelman riscontrò nel
cervello schizofrenico una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi
circa la significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato
dalle procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[8], per superare questo problema, allestirono uno studio che prevedeva un’accurata
indagine seriale degli emisferi cerebrali mediante sezioni sottili dello
spessore di 8 μ in uno studio controllato, in cui i reperti istologici dei
cervelli dei pazienti erano comparati con identiche sezioni del cervello di persone
non affette da psicopatologia e decedute per cause non cerebrali alla stessa età.
I Vogt trovarono in tutti i cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei
cervelli sani, anche se la localizzazione, l’aspetto istologico e la densità
variavano da un caso all’altro. I tre reperti principali dei Vogt furono cellule
colliquanti (Schwundzellen), degenerazione vacuolare e liposclerosi.
Negli ultimi decenni, dopo oltre
cinquanta anni durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia
è stata abbandonata in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali
e comportamentali, si è tornati su più solide basi, fornite dalle metodiche di
neuroimmagine, dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia
molecolare e neurochimica, a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza
di alterazioni del cervello[9]. Dalle differenze nel metabolismo cerebrale, nell’espressione dei
recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli equilibri fra sistemi neuronici, nelle
funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse dallo studio delle connessioni secondo
i metodi del campo specializzato della connettomica, si dispone di un’imponente
raccolta di dati che individua le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non
potrebbe essere spiegata nei termini obsoleti della ‘reazione maggiore’,
contrapposta alla ‘reazione minore’ costituita dai disturbi d’ansia”[10].
In passato, Giuseppe
Perrella e Giovanni Rossi hanno affrontato il problema allora emergente dell’alterazione
della funzione talamica nella schizofrenia[11]/[12].
A
proposito dell’aver a lungo trascurato in psichiatria i sintomi cognitivi della
schizofrenia, che poi hanno indicato importanti vie alla ricerca delle basi
neuropatologiche, due anni fa Rossi ha proposto questa osservazione:
“La
cultura che voleva caratterizzare anche la distinzione fra la neurologia, come
la branca medica che si occupa di ictus, epilessie, tumori, traumi cerebrali, e
così via, e la psichiatria, che si occupa di ansia, fobie, attacchi di panico,
depressione e disturbi con deliri e allucinazioni, sollecitava l’attenzione sui
sintomi “propriamente psichiatrici” della schizofrenia, perché non si cadesse nell’errore
di considerarla una “demenza precoce” come era accaduto nell’Ottocento.
Probabilmente, questa enfasi eccessiva ha portato a trascurare per molto tempo
la considerazione e lo studio sistematico dell’indebolimento cognitivo”[13].
In
realtà, nella clinica psichiatrica del disturbo schizofrenico si distinguono sintomi
positivi, quali
deliri e allucinazioni, sintomi negativi,
come l’anaffettività e il negativismo, e sintomi
cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio soggettivo o
inappropriato, deficit di attenzione e memoria, senza contare le frequenti stereotipie
di moto.
Per introdurre
alle interpretazioni neuroevolutive dei sintomi della schizofrenia correntemente
adottate dagli psichiatri, mi rifaccio a un articolo di Rossi del 20 marzo 2021[14]:
“Due anni fa ho ricordato un modello
neuroevolutivo della schizofrenia[15] attualmente oggetto di insegnamento in molte facoltà mediche di tutto il
mondo e proposto per la prima volta da Keshavan nel 1999: durante l’embriogenesi
noxae evolutive portano alla displasia
delle strutture costituenti alcune specifiche reti neuroniche, causando in tal
modo i segni premorbosi cognitivi e psicosociali; durante l’adolescenza,
un’eccessiva eliminazione di sinapsi determina un’iperattività dopaminergica
fasica e precipita la psicosi. Keshavan nota che, dopo la manifestazione clinica
della malattia, le alterazioni neurochimiche possono condurre a processi
neurodegenerativi.
Il motivo del successo di questo
modello è dato dal ‘sostegno’ ricevuto da numerose evidenze sperimentali. In realtà,
si tratta di una ricostruzione ragionevole e coerente con i dati dai quali è
stata desunta, e nulla esclude che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica
rispetto all’esigenza di capire perché e come le ‘noxae’ causino una
displasia responsabile di quei sintomi precoci e perché si determini una
perdita di sinapsi che causa iperfunzione dopaminergica[16]”[17].
Torniamo
ora allo studio qui recensito.
La
meta-analisi dell’espressione genica dei geni SMAD nel cervello di 211 affetti
da schizofrenia e di 212 persone non affette fungenti da controllo, per un
totale di 423 cervelli esaminati, è stata condotta integrando 10 datasets
da due raccolte pubbliche di dati, seguendo le linee-guida PRISMA.
Una up-regulation statisticamente significativa è stata
riscontrata per SMAD1, SMAD4, SMAD5 e SMAD7, mentre una tendenza verso l’iper-espressione
è stata rilevata per SMAD3 e SMAD9 nei campioni provenienti da cervelli di
pazienti diagnosticati di schizofrenia. Complessivamente, 6 degli 8 geni
considerati mostravano una tendenza alla iper-espressione, e nessun gene è
risultato tendere alla ipo-espressione (down-regulation).
Un altro
risultato sembra essere rilevante in termini clinici: nei campioni ematici
prelevati a 13 pazienti schizofrenici, nel confronto con 8 volontari privi di
disturbi mentali, si è riscontrata l’iper-espressione di SMAD1 e SMAD4. Questo rilievo
nel sangue periferico suggerisce la possibilità di candidare questi due geni
SMAD come biomarker di schizofrenia.
Ammie Wolf, Assif Yitzhaky e Libi Hertzberg hanno poi verificato che i livelli di espressione
dei geni SMAD erano significativamente correlati con i livelli di espressione
del recettore 1 della Sfingosina-1-P (S1PR1), che svolge un ruolo di regolazione
nei processi infiammatori.
La
meta-analisi condotta dai ricercatori israeliani supporta la tesi della partecipazione
dei geni SMAD alla fisiopatologia della schizofrenia, mediante il loro ruolo
nei processi infiammatori, oltre a dimostrare, più in generale, l’importanza
della meta-analisi dell’espressione genica per migliorare la nostra comprensione
delle basi neurobiologiche dei disturbi mentali.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna Rezzoni
BM&L-01 aprile 2023
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è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 18-03-23 La schizofrenia in nuovi studi.
[2] Note e Notizie 04-03-23 Il deficit di recettori H2 nella patogenesi della
schizofrenia.
[3] Dal DSM-5 a recenti rassegne è
riportato il dato del 60%.
[4] Paragonati ai controlli, i
livelli di SMAD4 sono risultati 25% in meno nella DLPFC e del 38% in meno nella
ACC. Cfr. Andrew S. Gibbons et al., World J Biol
Psychiatry 22 (1): 70-77, 2021.
[5] Note e Notizie 04-03-23 Il deficit di recettori H2 nella patogenesi della
schizofrenia.
[6] Sulla storia delle origini della
diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono
numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella
sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella storia”
si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali, elenca l’evoluzione
che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime tracce scritte, risalenti
al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.
[7] Le nozioni storiche riportate di
seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni
bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.
[8] Ai coniugi Vogt è intitolato un
istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli.
Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale
rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente
superiori alla media.
[9] Sicuramente una parte non
trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca
che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici
dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno
consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei
punti di vista che resistevano da decenni.
[10] Note e Notizie 16-11-19
Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19
Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.
[11] Note e Notizie 17-03-21
Alterata funzione del talamo nella schizofrenia.
[12] Note e Notizie 03-07-21 Talamo
anteriore nei difetti cognitivi di autismo e schizofrenia.
[13] Note e Notizie 27-02-21 Il
deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina. Si veda
anche lo studio maggiore sui rapporti fra geni associati alla schizofrenia e
volume delle aree cerebrali sottocorticali: Note e Notizie 20-02-16 Influenze genetiche su schizofrenia e volume
sottocorticale. Per i rapporti con la morfologia si veda anche: Note e Notizie 21-11-15 Nella schizofrenia
la normale asimmetria emisferica è ridotta e alterata e Note e Notizie 14-02-15 Segni di schizofrenia che precedono i sintomi
per una diagnosi precoce.
[14] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo. Per questa patogenesi
si legga il testo integrale dell’articolo.
[15] Note e Notizie 16-02-19 Nella
schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.
[16] È evidente la costruzione
deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il
campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi
dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di fenotiazinici,
butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione efficaci nel ridurre
deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti anni si è
consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali
alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i
sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.
[17] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo.